venerdì 28 febbraio 2014

Geopolitica dell'Iraq



A due mesi di distanza dalle elezioni parlamentari previste in aprile, l’ondata di violenza che ha colpito l'Iraq sta spingendo il paese verso un nuovo conflitto settario.

Secondo i dati di un recente rapporto dell’Onu, il 2013 è stato l'anno più violento dal 2008: eppure, quello da poco iniziato rischia di essere peggio, riportando il paese al terribile biennio 2005-06 quando la violenza confessionale lasciò sul terreno oltre 50 mila vittime. Solo a gennaio, gli attacchi sono stati circa 950, con quasi 1500 vittime: il doppio rispetto a quanto registrato l'anno precedente e il livello più alto dall'aprile 2008.

Gli ultimi dati sono in parte condizionati da quanto sta accadendo nella provincia occidentale di al Anbar, dove da inizio gennaio i militanti dello Stato islamico di Iraq e Siria (Isis) hanno preso il controllo dei maggiori centri provinciali, tra i quali Fallujah e Ramadi, approfittando del malcontento della comunità locale sunnita contro il governo a guida sciita di Nouri al Maliki.

Anbar è la più ampia delle province irachene: si estende verso occidente dai sobborghi di Baghdad ai confini statali con Siria, Giordania e Arabia Saudita. Mosaico di clan e tribù di orientamento sunnita, Anbar è uno storico bastione della confederazione tribale Dulaimi che in passato ha supportato il regime baathista di Saddam Hussein in cambio di una relativa autonomia nella gestione delle rotte commerciali verso occidente.

La composizione etnico-religiosa spiega in parte perché, negli anni dell’invasione statunitense, la regione sia stata teatro di scontri particolarmente cruenti, con buona parte dei Dulami che insorse contro il governo centrale a guida sciita fino all’avvento dei cosiddetti Consigli del risveglio, che avrebbero supportato l’offensiva statunitense contro i militanti jihadisti.

La composizione religiosa spiega inoltre il motivo per cui proprio la provincia di Anbar è diventata uno dei principali focolai del movimento di protesta che ha avuto inizio nel 2012, a seguito della detenzione di alcuni politici sunniti originari della regione, e che persiste ancora oggi dopo essersi esteso gradualmente ad altre aree a prevalenza sunnita del paese, come Diyala e Kirkuk. Il movimento di protesta, largamente pacifico e composto anche da tribù sunnite, chiede una maggiore rappresentanza politica per le proprie comunità che subirono la marginalizzazione della coalizione Iraqiyya operata dal governo Maliki. Nelle elezioni del 2010, la coalizione aveva dato rappresentanza agli iracheni sunniti contribuendo a disinnescare gli effetti delle paventate politiche settarie di Baghdad.

Il governo ha tentato in più occasioni di reprimere questo dissenso, come accaduto nell’aprile 2013 quando le forze di sicurezza lanciarono un raid per sgomberare il campo di protesta di Hawija, nei pressi di Kirkuk, causando la morte di circa 42 manifestanti. Nei giorni successivi, gli scontri tra l’esercito e le milizie sunnite e jihadiste - che tentarono di inserirsi per sfruttare a proprio favore la protesta - causarono circa 300 vittime.

Quanto accaduto a inizio anno ricalca in parte gli eventi del 2013. Ma questa volta il tentativo dell’Isis, che ad al Anbar ha da tempo una delle sue roccaforti, è stato più efficace. L'annuncio, dato a dicembre, di un’imminente offensiva contro i gruppi armati presenti nella provincia venne interpretato dall’establishment politico iracheno come una pericolosa iniziativa dalle venature settarie. Seguì l’ennesimo giro di vite contro i leader della protesta, la rimozione forzata di un campo alla periferia di Ramadi e l’esplodere degli inevitabili scontri tra manifestanti e Forze di sicurezza nei quali persero la vita 6 persone.

La stabilità di al Anbar fu così scossa, offrendo ai miliziani dell'Isis l'opportunità di inserirsi con successo nel caos che ha fatto seguito all'attacco governativo. Il gruppo, evoluzione dell’organizzazione guidata a suo tempo da Abu Musab al Zarqawi, ha evitato lo scontro frontale con le tribù sunnite - ostili sia al governo Maliki sia agli stessi jihadisti - riuscendo in breve tempo a prendere il controllo di postazioni governative e militari da cui sfidare l'esercito iracheno.

Fino a questo momento, il governo Maliki ha preferito non lanciare alcuna offensiva su larga scala, via terra, nell'intento di non alienarsi ulteriormente la comunità sunnita, puntando piuttosto a convincere le tribù locali a espellere i militanti jihadisti come condizione per scongiurare l'intervento dell'esercito. Frattanto, proseguono i bombardamenti e i raid aerei delle Forze armate che hanno permesso ai governativi di riprendere il controllo di Ramadi, senza per questo evitare una dura escalation negli scontri con i militanti dell’Isis.

Nonostante le violenze di al Anbar siano legate a doppio filo con questioni di politica interna e settaria, è indubbio come il fattore-Isis abbia avuto un ruolo di primo piano nel far lievitare il livello delle violenze in Iraq. Dopo alcuni anni in cui il gruppo sembrava aver intrapreso una parabola discendente, il suo coinvolgimento in Siria ha permesso all’organizzazione di estendere il proprio teatro operativo e di attingere a una più ampia base di militanti e armi garantitegli dalla porosità della frontiera tra Iraq e Siria.

L’Isis gode di una popolarità in aumento grazie alla leadership del suo emiro, Abu Bakr al Baghdadi. La nuova stella del movimento jihadista è stata in grado di resistere alla pressione dello stesso leader di al Qaida, Ayman al Zawahiri, il quale ebbe modo di esprimersi in più di un’occasione contro la fusione dell'iracheno Stato islamico di Iraq e di parte del siriano Jabhat al Nusra, da cui sarebbe poi emerso l'Isis. Per questo motivo, la fusione ha finito per creare una delle più profonde fratture che il panorama jihadista abbia mai conosciuto nel cuore del Medio Oriente.

Il gruppo di al Baghdadi è comunque destinato a rimanere un polo di riferimento per i jihadisti del Levante, forte del suo messaggio di protettore dei sunniti in Iraq, in Siria e più di recente anche in Libano, contro quella che definisce "l’oppressione dei regimi safavidi regionali". Il nuovo ruolo regionale dell’Isis non implica una varuazione nelle sue priorità: nonostante aspiri a creare uno Stato islamico in grado di copriregeograficamente tutto il Levante, questa spinta parte prevalentemente dall’Iraq. La Siria garantisce al momento un retrovia strategico grazie al corridoio rappresentato per l’appunto da al-Anbar.

In Siria, Isis è impegnato nella guerra contro l’Esercito di Damasco - e in parte contro le brigate islamiste contrarie alla sua azione - supportata da una strategia di conquista e amministrazione del territorio che in Iraq solo nella provincia di al-Anbar ha di recente trovato una replica parziale. Nello stesso Iraq, il gruppo ha soprattutto lanciato una sfida diretta al governo centrale, con una campagna insurrezionale in costante aumento dalla fine del 2011. Nonostante si sia concentrata soprattutto nelle province occidentali a maggioranza sunnita, come Ninewa, Salaheddine e al Anbar, il centro nevralgico delle operazioni continua a essere la provincia di Baghdad e altri distretti provinciali dove la presenza sciita è comunque alta.

L'Isis intende colpire i centri del potere iracheno e della comunità sciita, dimostrando la propria capacità nel violare anche le aree più protette della capitale e l’incapacità del governo nel garantire la sicurezza anche dove la presenza dei militari è più densa. L’assalto contro il ministero dei Trasporti di Baghdad (fra fine gennaio) e la serie di attentati nella green zone della capitale (e inizio febbraio) sono una chiara dimostrazione delle capacità operative del gruppo e dalla debolezza dell’apparato della sicurezza iracheno.

Nonostante l’Isis rappresenti la principale minaccia alla stabilità irachena, l’emergere di nuovi e vecchi elementi insurrezionali ha aggravato la prospettiva di un conflitto settario. Gruppi come il neo-baathista Naqshbandia army hanno già iniziato ad attrarre membri della comunità sunnita desiderosi di abbandonare la protesta di piazza per l’attività insurrezionale, mentre gruppi emersi negli anni della guerra civile come l’Islamic army, Hamas Iraq, le Brigate rivoluzionarie 1920 e il Mujaheddin-e Khalq sarebbero tornati attivi nella provincia di al Anbar.

Nelle ultime settimane, sul fronte sciita, membri dell’Asaib Ahl al Haq, brigata che si ritiene sostenuta dall’Iran e che ebbe un ruolo di primo piano ai tempi dell'invasione Usa, sono tornati a mobilitare le proprie forze in chiave anti-Isis per rispondere alla serie di attentati contro le aree sciite del paese. Secondo fonti statunitensi anche altre milizie sciite, come la Badr organization o il Kataib Hezbollah, avrebbero iniziato a operare con il beneplacito delle forze di sicurezza.

Questo quadro rischia dunque di polarizzare ulteriormente le divisioniconfessionali dell’Iraq in un momento chiave della sua transizione politica, proiettando definitivamente anche Baghdad nell’aperta contrapposizione tra sunniti e sciiti che sta infiammando gran parte del Levante.

da Limes, Per approfondire: Dieci anni dopo, l'Iraq non esiste
(27/02/2014)

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