domenica 2 marzo 2014

La fiamma di Atar. Capitolo 1. Luca Bosco



La sua indole era sempre stata simile a quella di un gatto.
Era capace di empatia e simpatia,  e conosceva bene le regole del gioco, ma non era stato mai realmente addomesticabile.



Non era né leader, né gregario, né ribelle, né emarginato: era libero, e nessuno mai era riuscito a possedere interamente le chiavi del suo cuore.
Aveva imparato a camminare sul crinale sottile tra la contemplazione e il desiderio, apprezzando i doni della quiete, senza disdegnare quelli della passione, una fiamma che era sempre rimasta accesa in lui, anche nei momenti più oscuri.
Non era un uomo di mondo, ma nemmeno un asceta.
Era nato sapendo che c'è un tempo per tutte le cose, e questa era stata sempre la sua salvezza.
Elegante e buffo a seconda delle circostanze, aveva il dono dell'ironia e la capacità di non prendersi mai troppo sul serio.
Cercava di godersi quello che la vita gli offriva, concentrandosi sul momento presente.
Le sue armi erano l'intuizione e la parola, unite però ad una diffidenza di fondo verso l'intero universo.
Dire che fosse cinico sarebbe stata una un'esagerazione. 
Il suo era più che altro un giustificato disincanto, che non aveva nulla a che vedere con i piagnistei dei pessimisti o l'acidità dei frustrati, e si teneva a distanza di sicurezza dalla velleitaria ingenuità degli utopisti e dei fanatici.
Non approvava chi generava illusioni, ma non voleva nemmeno essere lui a disilludere gli altri, ricordando l'ammonimento di Arturo Graf: "Badate, volendo estirpare un'illusione, di non uccidere un'anima".
Vicino alla soglia dei quarant'anni, senza aver combinato nulla di particolarmente significativo, Luca Bosco, aveva siglato col mondo, con la vita (e con la propria coscienza) una specie di tregua, o di armistizio.
Era giunto alla conclusione che i pilastri della saggezza e della salute mentale consistevano nel concentrarsi sul presente, nel fare pace con il passato e nel non preoccuparsi troppo per il futuro.
Facile a dirsi, potrebbero obiettare alcuni, e avrebbero ragione.
Quel tipo di saggezza non è una conquista facile, né mai del tutto definitiva, ma era di sicuro una forma mentis che aiutava a vedere le cose in una prospettiva meno angosciosa, e questa era una attitudine di non poco conto per un uomo costretto a vivere in un contesto dove le sue doti non erano considerate particolarmente utili.
Il contesto, già.
L'Italia degli anni '10 del XXI secolo non era quel che si direbbe un contesto particolarmente esaltate.
Lo stesso concetto di Italia era qualcosa di piuttosto vago.
Conteneva in sé realtà così diverse e contraddittorie da apparire sostanzialmente indefinibile.
E questo il nostro anti-eroe lo sapeva sufficientemente bene.
Era un italiano, qualunque cosa volesse dire questo termine, ma era anche un italianista.
Per i non addetti ai lavori, basti sapere che l'italianistica è lo studio della lingua, della letteratura e più in generale della cultura italiana, ivi compresa la sua storia, la sua geografia e tutte quelle peculiarità che possono essere utili per cercare di definire cosa sia questa fantomatica realtà che ha nome Italia.
C'era stato un tempo, prima che la frenesia del riformismo permanente demolisse quel poco di certezze che ancora rimanevano in quell'angolo di mondo dalla storia plurimillenaria, in cui la laurea in italianistica era chiamata Lettere moderne, per distinguerla da quella in Lettere classiche.
Per tutta una serie di vicissitudini che il nostro anti-eroe si guardava bene dal rivelare, egli era approdato alla laurea magistralis in italianistica pur avendo un'età che gli avrebbe permesso, se la sua vita non  fosse stata così poco lineare, di approdare molti anni prima ad una tradizionale laurea in lettere moderne.
Tirava a campare con un lavoretto part-time sottopagato in una delle tante biblioteche universitarie della Città dai Portici Antichi. Abitava in un umido monolocale al piano terra di un cadente palazzo del centro storico, in zona universitaria. Era di sua proprietà, almeno, (l'unica eredità lasciatagli dai suoi) e lui ne aveva fatto la sua tana, come se fosse una specie di caverna hobbit, cosa di cui era perfettamente consapevole.
A soli dieci anni aveva già letto tutti i romanzi di Tolkien, e senza dubbio al professore di Oxford andava il merito, e forse anche la colpa, di aver fatto amare a Luca Bosco la lettura più di qualsiasi altra cosa al mondo. In particolare la lettura di romanzi fantasy oppure di genere fantastico, che contenessero cioè almeno un piccolo elemento di sovrannaturale.
Il suo interesse per il sovrannaturale andava oltre la letteratura e l'arte. La sua cultura infatti comprendeva buona parte della storia delle religioni, con particolare interesse per l'animismo, i politeismi, i culti misterici, lo gnosticismo, le eresie, l'esoterismo, fino alle sue propaggini novecentesche.
Era lontano, almeno mentalmente, dalle religioni ufficiali e dalla loro ortodossia.
Non accettava l'idea che Dio potesse essere nel contempo buono e onnipotente.
Amava quindi il dualismo zoroastriano e manicheo e le sue sopravvivenze nello gnosticismo e in tutta la letteratura che ne era derivata, così come alle religioni orientali.
Era molto interessato inoltre alla mitologia.
Si trattava di un desiderio di evasione dalla realtà o, come dicevano i critici letterari, di "escapismo", accusa a cui Tolkien stesso aveva risposto con valida efficacia: "Non è la fuga del disertore, ma l'evasione del prigioniero verso la libertà".
Era nata così la simbiosi tra lui e i libri e, giunto ormai "nel mezzo del cammin di nostra vita", riteneva che quella simbiosi gli avesse quantomeno garantito un'esistenza tranquilla, lontana dai pericoli e da quelle spiacevoli complicazioni e avventure che, per dirla con Bilbo Baggins, "facevano far tardi a cena".
Si sbagliava.
Non aveva la minima idea di quanto si stesse sbagliando.


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