domenica 23 marzo 2014

Le bassezze dell'Alta società. Capitolo 8. Le porte degli Inferi.



Tutto era buio e silenzio nella campagna.
Si erano lasciati alle spalle le luci delle ultime sparute casette di Fossalta e la strada proseguiva sempre più diritta e cupa verso il nulla.
Un senso di abbattimento, di tristezza, di noia, subentrò alla rabbia, nelle emozioni del figlio.
E’ tutto così assurdo!
La madre si era di nuovo persa nei suoi pensieri.
«Ormai ci siamo… ricordo che c’era un grande recinto, in fondo alla strada, e un bosco intorno alla Villa…»
Aveva di nuovo quella voce flebile, assente, quasi stesse vaticinando un oracolo.
Lentamente, di lontano, parve prendere forma un grumo nero.
Che sia questo, il bosco?
Eppure era strano che non ci fosse neppure un lampione a illuminare quelle zone.
Se quello era il posto, c’era di sicuro qualcosa di morboso in chi vi abitava, un inspiegabile gusto per l’isolamento e per le tenebre.
«Com’era la Villa? Me la immagino molto tetra… tipo il castello di Gothian».
Amava molto i romanzi del ciclo di Gothian, specie la figura del Conte Fenrik.



La madre scosse il capo: «No, anzi, fu costruita in stile neoclassico coloniale… ricorda più le residenze dei latifondisti del sud degli Stati Uniti»
Delusione.
«Tipo “Via col vento”?» ironizzò lui.
Lei annuì.
«Beh, il progetto iniziale era molto… come dire… luminoso… arioso…»
Arioso? In quella palude?
Il grumo nero si avvicinava e cresceva di dimensioni.
Giulia ne parve atterrita: continuò il suo discorso, ma con una vena di malinconia nella voce.
«La decadenza è venuta dopo. La stirpe ormai consumata, il sangue anemico, gli ultimi discendenti...  lo sai come vanno queste cose, hai letto il Gattopardo, i Buddenbrook, o il crollo di casa Usher, o il castello di Lourps dei Des Esseintes...»



Al figlio venne il dubbio che la madre stesse impazzendo nel suo delirio di citazioni letterarie da lettrice compulsiva, ma il nobile profilo di Giulia si stagliava singolarmente diritto e composto, ed i suoi occhi fissavano con lucida determinazione la  minacciosa oscurità del bosco: «Gli alberi sono cresciuti», disse.
Roberto capì che il luogo era quello. L’orologio al polso segnava le dieci di sera.
Non è un’ora buona per arrivare a casa della gente.
Percorsero l’ultimo tratto in silenzio, fino al muro di cinta e al grande cancello in bronzo. 



Fortunatamente il cancello era aperto e il vialetto era illuminato da piccoli faretti al neon.
Si fermarono senza dire una parola.
Scesero.
Si sgranchirono un po’ le gambe, nel buio. 
Videro un campanello con tanto di citofono e parve loro che fosse fuori luogo, un anacronismo, in quella terra dimenticata da Dio.
«Suono io» sussurrò la madre.
Mentre si avvicinava al cancello arrugginito, vide che vi era appeso uno stemma in bronzo raffigurante due orsi rampanti e un’armatura medievale. Sotto lo stemma, un motto latino: “Dominus providebit”, che Roberto trovò stranamente ironico. 
A lato era appesa una targa, di epoca successiva, in cui si leggevano le opache lettere Villa Ozzani di Fossalta, e sotto di essa il citofono, con vari pulsanti ognuno per piano. Al piano nobile, naturalmente, c’era scritto: “Dama Virginia Ozzani, Contessa di Fossalta”.


La madre suonò. 
Una voce cupa, sicuramente la governante, chiese «Chi è?»
«Giulia Federici»
«La stavamo aspettando» (glaciale).
Percorsero il lungo viale alberato in salita fino allo spiazzo davanti alla Villa, tra un abbaiare di cani e un fuggire di gatti. Roberto incominciò a distinguere i contorni della costruzione, illuminati dai fari dell’auto.
Villa Ozzani incombeva nell’imponenza neoclassica, con tanto di scalinata centrale e colonnato, su un terreno sopraelevato.
Gli parve che la facciata fosse di colore chiaro, ma ormai l’edera la ricopriva per buona parte. Si intravedevano ancora mezze colonne ad angolo retto ai lati delle grandi finestre, con sopra un piccolo timpano a capanna e fregi interni.
Sopra al colonnato centrale, in stile dorico, c’era un enorme fregio con incise in enormi caratteri dorati delle lettere illuminate dagli unici fari posti ai lati della scalinata e rivolti verso l’alto.
Roberto, ancora seduto in macchina, lesse ad alta voce:
«IOSEPHUS  OZZANI COMES AEDIFICAVIT ANNO DOMINI…e poi…»
Lesse a stento MDCCCXVII
«1817» completò Giulia.
Lo ricordava a memoria.
Roberto si sentì a disagio e il silenzio calò tra loro.
A riportarli alla realtà fu un deciso miagolio del gatto.
Parcheggiarono l’auto nello spiazzo ricoperto di ghiaia e scesero di nuovo con aria stravolta e stordita e un senso crescente di inquietudine e di oppressione.



«I bagagli li portiamo dopo» ordinò Giulia.
Lui non ebbe da ridire, anche se sentiva crescere dentro di sé un brutto presentimento.
 Salirono i gradoni scheggiati della scalinata, varcarono il colonnato e trovarono il portone enorme, nero come ebano, e chiuso.
Le maniglie erano arrugginite.
C’era un campanello all’antica senza nome e suonarono di nuovo.
La porta si aprì cigolando.
L’enorme figura obesa della governante si disegnò di fronte a loro con un cipiglio austero che imponeva soggezione.
Imbarazzo…attimi di silenzio…interminabili…
«Ehm… salve… » azzardò Giulia e tese la mano «Sono Giulia Federici»
Accennò un sorriso.



L’altra apparve esitante.  
Poi, di malavoglia si presentò: «Concetta Ajello, la governante».
L’accento napoletano era molto spiccato.
Si strinsero la mano freddamente.
Per un attimo la governante parve colta da un dubbio:
 «Ma lei è proprio lei?»
«Prego?»
«No, dico, è proprio quella Giulia… »
«In che senso? Comunque sì, il mio nome…»
«No, non per il nome, è che nella fotografia mi pareva un'altra»



<<Sono passati più di quarant'anni>>
In effetti Giulia era invecchiata. 
I lunghi capelli fulvi, vanto della sua età giovane, erano ridotti a un biondo grigiastro, sbiadito. Gli occhi verdi, che un tempo avevano fatto strage di cuori, si erano infossati e spenti in un grigio acquoso. La pelle già candida come porcellana ora evocava solo il pallore di un cadavere. E le rughe, poi…
<<E' proprio cambiata>>
«Sa, signora Concetta, non tutti abbiamo i mezzi per tenerci giovani» fu la risposta seccata di Giulia.
Roberto annuì in difesa della madre.
 «Vabbe'… ma vi avverto… la Signora sta male, e sta de cattivo umore»
Come al solito pensò Giulia.
«E’ stata nervosa tutto il giorno… poi ha preso un calmante…» c’era un tono di rimprovero nella sua voce «… adesso riposa».



Li fissò come per dire: “Avreste fatto meglio a non venire”.
«Beh, allora, intanto che dorme, noi ci sistemeremmo…» disse Giulia, notando che erano comparsi due giovani robusti dietro la governante.
«Mia figlia e mio genero» li presentò (entrambi erano corpulenti e cupi) e con un cenno del capo accompagnò l’ordine: «Aiutate i signori a portare i bagagli»
Roberto si stupì.
Insolita cortesia: vuole forse controllare cosa ci siamo portati dietro?
Dopo aver caricato tutti i bagagli, compresa la gabbietta del gatto sempre più miagolante, entrarono.
Che buio!
Lentamente la vista si adattò all’ombra dell’interno.
C’era fresco, ma non era l’aria condizionata a crearlo, quanto piuttosto la robustezza delle pareti antiche.
 Rimase stupefatto dall’ampiezza del grande atrio.
O  antro? O porta degli Inferi?


Vide al centro uno scalone in marmo rosa, a gradini bassi e levigati, che saliva costeggiando le pareti. Anche i pavimenti erano in marmo, ma più chiaro, quasi latteo, e tirato a lucido.
I busti e i ritratti degli antenati incombevano arcigni alle pareti e ai lati dello scalone.



Vide soffitti alti, lampadari decorati: l’arredamento era tutto “stile Impero”.
Qui il tempo si è fermato al 1817!
Sulla destra una porta dava su un enorme salotto, sulla sinistra un’altra porta introduceva a un salone da ballo. L’atrio si prolungava oltre, con porte che si affacciavano su scalette che scendevano nel seminterrato.
In dimidio dierum mearum vadam ad portas Inferni!
In fondo, nel buio, si intravedeva una porta che mostrava forse un cortile interno.
Unico tocco di modernità, un ascensore “stile liberty” al centro della tromba del grande scalone.
«Al primo piano ci stanno gli appartamenti della Signora, al secondo quelli degli ospiti e al terzo quelli del personale» (la governante faceva da Cicerone con una certa aria di importanza).
Qui di ospiti non devono averne avuti molti, almeno negli ultimi anni.
Salirono al secondo piano.
L’imponente Donna Concetta li guidava in silenzio verso i loro alloggi.
Corridoi, meandri…cunicoli…




Le stanze degli ospiti erano meno ampie, con soffitti più bassi e normali finestre. L’arredamento era spartano e all’antica, un po’ usurato. C’era odore di chiuso e di vecchio. Odore di morte.
Mah… sarà vero che è ricca questa donna?
Però il bagno era enorme: Giulia disse di ricordare che era stato ricavato da una camera da letto.  L’appartamento comprendeva poi un salottino con un vecchio televisore, una sala da pranzo e una cucina.
Si accomodarono nelle loro stanze. La governante se ne andò senza una parola.
Finalmente!
Accatastarono i bagagli, liberarono il micio, gli prepararono una cassettina per i bisogni e si rilassarono un po’ in salotto.
Giulia però mostrava in viso una tensione che a stento riusciva a dominare.
Il gatto si aggirava sospettoso nella sala, annusandone accuratamente ogni angolo.
<<Non mi meraviglierei se trovasse un topo>> fu il commento di Roberto.
Ma Giulia aveva la mente altrove, lontano nel tempo, nei decenni e i suoi occhi parevano vedere oltre un velo di nebbia e scrutare invisibili porte al di là delle tenebre.


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