sabato 29 marzo 2014

Le bassezze dell'Alta Società. Capitolo 13. La Nuova Camelot.




Su Villa Ozzani di Fossalta circolavano le voci più disparate: se ne favoleggiava con meraviglia e timore reverenziale, quasi si trattasse di un monumento storico o di un sacrario, ma circolavano anche leggende nere, voci inquietanti, che ne tratteggiavano i misteri a tinte fosche.
Ciò che impressionava i pochi privilegiati che vi erano ammessi, e che trapelava da una cert’aria di importanza quando ne magnificavano l’unicità, era quello strano “mosaico” composto di raffinatezza e stravaganza, di serenità olimpica e mistero.
La Villa del resto era senza dubbio una contraddizione in termini, una coesistenza di illuminismo progressista (era stata costruita su terreno bonificato a costo di grandi investimenti e creando molti posti di lavoro) e di tradizionalismo neogotico, nelle sue linee architettoniche, quasi da corte medievale.
Quest'aura di romanzo cavalleresco e di romanticismo cortese permeava ogni luogo della Villa ed ogni aspetto della vita quotidiana della famiglia Ozzani di Fossalta e di tutti coloro che erano al suo servizio e che si sentivano onorati di collaborare alla gloria dei Conti e della loro magione.
Giulia Federici, che pure apparteneva a una famiglia mediamente benestante e possidente, provava un senso di assoluta inferiorità al cospetto delle leggende che ammantavano la Villa come un velo fiabesco, quasi fosse una nuova Camelot.




Questa impressione era stata confermata quando era divenuta compagna di banco della carismatica Virginia Ozzani di Fossalta, la bionda e algida “Fata Morgana”, (come Giulia l’aveva soprannominata), dalla quale pareva si emanassero tutto il fascino e la magia dell’universo a sé stante della Villa.
Nella fervida e un po’ ingenua immaginazione dell’adolescente Giulia, il mito della Tavola Rotonda riviveva nella famiglia Ozzani e nel suo mondo elitario.
Certo la bellezza principesca e i modi cavallereschi di Alessio Ozzani, (“biondo era, e bello e di gentile aspetto), l’affascinante fratello di Virginia, lo facevano apparire veramente un nuovo Re Artù. Forse inconsciamente Giulia se ne era già innamorata, quelle poche volte che aveva parlato con lui nei corridoi del Ginnasio, ammessa alla sua “sacra presenza” in nome della devota amicizia che mostrava per la sorella.
Giulia attendeva con ansia il giorno del compleanno di Virginia, il 15 maggio 1956, perché finalmente, dopo mesi di amicizia, era stata invitata alla Villa. 
Avrebbe potuto attraversare l’incantesimo delle “nebbie di Avalon” poste a protezione di quell’inavvicinabile luogo che anni dopo le sarebbe parso in qualche modo simile al Castello del romanzo di Kafka.



Già nella fantasia si raffigurava il Conte Umberto come un altero Mago Merlino e la Contessa Claudia come un’eterea e diafana Dama del Lago.
Temeva di non essere all’altezza della situazione, di non superare l’esame severo della famiglia Ozzani di Fossalta, la “prova di ammissione” a quel mondo fatato a cui tanto ardentemente desiderava appartenere.
Non sapeva, o meglio non poteva sapere, che le leggende, come le aspettative, non reggono quasi mai il confronto con la realtà, e che l’unico modo per mantenerle vive è preservarne il mistero.
Quella considerazione, da sola, sarebbe potuta bastare per tenersi alla larga da un mito vivente.
Lo sapevano bene gli Ozzani, che avevano costruito la loro leggenda proprio sul non ammettere quasi nessuno al loro cospetto, anche perché non ne vedesse i difetti, non ne scoprisse le debolezze, non ne capisse l’inconsistenza.