martedì 26 dicembre 2017

Vite quasi parallele. Capitolo 94. Dura pioggia cadrà

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Dopo tutti gli scandali, i disastri finanziari, i testamenti traditi, i matrimoni osteggiati e quelli combinati, gli amori impossibili, le promesse non mantenute, i lutti, le delusioni e le conseguenti umiliazioni, il clan Ricci-Orsini-Monterovere credeva di aver toccato il fondo e che dunque il peggio fosse passato.
 E invece no.
A volte ci sembra impossibile che le cose possano andare peggio di come stanno andando, ma è un'illusione.
La verità che non vogliamo sentirci dire è che non esiste limite al peggio, almeno non in questa vita.
Quello che era accaduto prima alle famiglie Ricci-Orsini e Monterovere era solo l'inizio, il preambolo, l'ouverture della vera tragedia greca che si sarebbe abbattuta come un uragano su tutti i membri della famiglia.
Grandi nubi incombevano su di loro, nubi che si facevano ogni giorno più nere e cariche di pioggia, di dura pioggia battente, di tempesta, anzi, di uragano.



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Nessuno sarebbe stato risparmiato da quella bufera.
Né la generazione più anziana, né quella intermedia, né quella più giovane: soltanto quelli che nacquero dopo gli anni difficili poterono crescere come "figli dell'estate".
Il vecchio Romano Monterovere, più che novantenne, era ormai un relitto umano aggrappato alla vita come un'ostrica al proprio scoglio.
Aveva diseredato i figli maschi, ma anche alla figlia avrebbe lasciato poco, dal momento che tutti i suoi soldi furono spesi in un forsennato accanimento terapeutico, per prolungare il più possibile una vita che ormai non gli offriva altro che dolore. A tenerlo in vita era una specie di puntiglio: ci teneva a sopravvivere a tutti i suoi nemici e a tutte le persone pubbliche che non sopportava: era disposto a soffrire pene indicibili pur di ottenere questo risultato.
Diana Orsini aveva varcato la soglia dei novant'anni in condizioni apparentemente migliori, ma c'era un male che lavorava in segreto dentro di lei.
Ciò che però era ancora più sconvolgente era il fatto che lo stesso male, nello stesso identico punto, stava lavorando anche nel corpo di sua figlia, Silvia Ricci-Orsini.
A volte la genetica non perdona.
Nel 2003 ancora non lo sapevano, perché si trattava di una malattia silente, quasi impercettibile, che poteva andare avanti per decenni senza lasciare traccia, ma poteva anche rivelarsi fatale, se diagnosticata troppo tardi.
In ogni caso Silvia incominciava a sentire il peso dell'età, avendo oltrepassato i sessant'anni: per questo aveva deciso di andare in pensione.
Francesco Monterovere era andato in pensione nello stesso anno di sua moglie, ed entrambi speravano di potersi godere il tempo libero concedendosi qualche viaggio, qualche lunga vacanza, qualcosa che li aiutasse a riprendersi dagli eventi dell'ultimo decennio.
Ma Francesco aveva ereditato dalla madre gli stessi problemi cardiaci che avevano condotto Giulia Lanni Monterovere ad una morte precoce.
Grazie al cielo la medicina e la chirurgia avevano fatto passi da gigante, da quel lontano giorno in cui Giulia Monterovere era venuta a mancare, per cui il monitoraggio della situazione cardiovascolare fu tale da permettere a Francesco di conoscere per tempo i rischi a cui era esposto.
Il numero di interventi a cui dovette sottoporsi fu incredibilmente lungo e incominciò con una cardioversione e una defribrillazione, seguite poi da un'angioplastica coronarica. I rischi maggiori tuttavia provenivano dalle valvole cardiache calcificate e dall'aorta, che presentava un principio di aneurisma e di dissezione.
Era preoccupato, certo, ma le preoccupazioni più assillanti derivavano naturalmente dal figlio Riccardo, la cui situazione era incerta.
Finito il servizio civile, aveva incominciato una serie di colloqui di lavoro e aveva finito per accettare un incarico nella sede centrale di una banca di Bologna, sufficientemente lontano da Forlì per conservare un certo anonimato, ma anche sufficientemente vicino alla famiglia, che intendeva tenerlo d'occhio, affinché non ricadesse nei vizi milanesi.
E si trattava di un trasferimento destinato a durare.
Aveva anche acquistato un appartamento in Via Mascarella, con tanto di cortile interno, facendo un mutuo garantito da una fideiussione di sua nonna.
Fu da quel momento che i suoi amici, per scherzare bonariamente sui suoi quarti di nobiltà e sulla sua nuova residenza, incominciarono a chiamarlo "il Duca di Mascarel", e a ribattezzare la palazzina bolognese con l'epiteto sarcastico di Mascarel Palace.
Meno ironica era stata la reazione della sua ragazza.
Barbara non aveva gradito quella scelta.
A dire il vero, era da un po' di tempo che non gradiva più le scelte del fidanzato:
<<E' una banchetta da quattro soldi! Uno come te doveva accettare soltanto un posto alla Goldman Sachs, magari nella sede di Zurigo o di Londra. Avremmo fatto la bella vita! E invece ti sei infognato in quel grasso paesone emiliano... no, così non va... hai fatto una scelta da perdente ed io con i perdenti non voglio avere a che fare>>
Riccardo annuì:
<<Capisco. In fondo è tutta colpa mia: ti ho trasmesso di me un'immagine che non corrispondeva alla mia vera natura, e di questo ti chiedo scusa. L'ho fatto in buona fede, però, perché all'epoca anch'io credevo di essere forte e vincente. Ora non so più esattamente cosa sono, ma di sicuro non sono la persona che tu meriti di avere al tuo fianco>>
Senza l'euforia del Deadyn e l'atmosfera frenetica e mondana di Milano, la storia tra lui e Barbara non poteva più continuare.
Ci fu un addio civile e consensuale e con questo Riccardo dimostrò che, se anche fosse stato vero che era un perdente, almeno sapeva perdere con stile.
La fine della relazione con Barbara lo convinse ancora di più che era concluso il tempo delle relazioni superficiali, innescate solo da infatuazioni derivanti dall'aspetto fisico o dall'ambiente circostante.
Sarebbero state solo una perdita di tempo.
Era il momento di incominciare a cercare la donna giusta, la famosa anima gemella, ammesso che esistesse: quella che sarebbe potuta diventare la madre dei suoi figli, perché all'epoca ancora lui credeva di avere un dna degno di essere trasmesso.
Ciò che accadde dopo, però, sia ai suoi famigliari, in termini di malattie congenite, sia a lui stesso, in termini di instabilità emotiva e di scelte di vita, avrebbe messo fortemente in dubbio l'idea che il suo sangue, per quanto moderatamente blu, fosse poi così degno di essere perpetuato con una discendenza.
Tutti dicono che mettere al mondo un figlio sia un atto d'amore. 
Può anche darsi, ma in certi casi può essere una scelta narcisistica, una volontà di completare se stessi, di rendersi immortali, oppure di prendersi una rivalsa, nella speranza che i figli ottengano ciò che noi non siamo riusciti ad ottenere.
Ma i figli non sono i nostri figli, sono i figli del futuro. Non ci appartengono, vivranno vite che noi non potremmo nemmeno immaginare e assisteranno a cose che noi non vedremo mai neppure in sogno.
Questo lo capì quando nacque la figlia di suo cugino, ma di ciò si parlerà più avanti.
Fino a quel momento era lui il più giovane della famiglia e sapeva quali dolori un figlio poteva dare.
Poteva succedere che un giorno un figlio arrivasse a rimproverare i genitori per averlo messo al mondo, perché, come disse Edipo: "Non nascere è il più grande dei doni".
Questa però è una consapevolezza della tarda età, non della gioventù.
E poiché Riccardo all'epoca era ancora giovane, conservava la speranza di potersi riscattare, di avere successo nel lavoro, di trovare la donna giusta e la felicità a cui tanto anelava.
Forse si aspettava un po' troppo, ma erano ancora gli anni precedenti alla grande crisi finanziaria del 2008 e al drastico cambiamento delle regole del gioco che ne sarebbe scaturito.
Ma quello era il meno.
Riccardo non poteva sapere che i lavori che avrebbe fatto e la donna di cui si sarebbe innamorato, erano destinati ad essere parte integrante di quell'uragano che stava per abbattersi su di lui e sulla sua famiglia.
Eppure era tutto già scritto in quelle nubi sempre più nere e in quei tuoni che, in lontananza, sembravano cantare una lugubre litania, simile a una ballata di Bob Dylan:
<<A hard rain's a gonna fall. Una dura pioggia cadrà>>